Governo rilancia voto sulla Brexit domani. Johnson in tribunale?
cestino prima di ricevere risposta. La Brexit si tinge di farsa dopo la falsa partenza del tentativo del governo Tory di Boris Johnson di strappare uno straccio di ratifica a Westminster dell’intesa sull’uscita dall’Ue, raggiunta con Bruxelles in extremis a quasi tre anni e mezzo dal referendum del 2016. Fermato dall’emendamento-trappola che ieri ha imposto l’ennesimo rinvio, il primo ministro ha risposto a modo suo, o alla Trump, a un’umiliazione che potrebbe non significare necessariamente sconfitta finale. E che per i suoi oppositori, in Parlamento come in piazza, potrebbe ancora rivelarsi una vittoria di Pirro. Costretto a domandare all’Ue un’estensione dei termini della Brexit oltre quella scadenza del 31 ottobre che pure continua a indicare come certa, si è prodotto in un esercizio di astuzia che il leader laburista Jeremy Corbyn ha liquidato alla stregua di «una fanfaronata»: il gioco delle 3 lettere (o delle 3 carte). Una l’ha inviata anonima al presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per invocare in modo sbrigativo e strettamente formale un rinvio di tre mesi (fino al 31 gennaio 2020, ha confermato Bruxelles). Una seconda l’ha affidata all’ambasciatore Tim Barrow, per precisare che la richiesta è soltanto un atto obbligato, reso necessario dai dettami della cosiddetta legge anti-no deal, o Benn Act, promossa a settembre dall’opposizione parlamentare. E una terza l’ha firmata finalmente di proprio pugno, per argomentare la contrarietà sua personale e del governo tutto verso una soluzione bollata come sbagliata, oltre che non necessaria. Un intreccio di messaggi da lasciare allibiti. E che l’Ue si è presa tempo per valutare. Forse anche perché divisa al suo interno fra chi l’estensione vorrebbe concederla a prescindere, per evitare l’incubo no deal (Germania in testa), o magari per offrire una sponda al fronte britannico anti-Boris; e chi al contrario esita o magari pensa di reggere il gioco proprio a Johnson, come si sospetta voglia fare il presidente francese Emmanuel Macron lasciando aleggiare persino l’arma del veto. Sia come sia, i 27 per ora non decideranno: e potrebbero continuare a far melina fino al summit straordinario del 28, secondo quanto fonti citate dal Sunday Times sostengono sia stato assicurato a Downing Street. Una manovra destinata a lasciare la palla nel campo di Londra. Ma, chissà, anche a consentire al premier britannico di riprendere l’iniziativa e di mettere pressione sul Parlamento fino all’immediata vigilia del 31 ottobre. Il governo intanto conferma di voler riportare in aula l’accordo già domani, allegato al pacchetto di leggi attuative il cui varo è stato indicato come premessa necessaria dall’emendamento dilatorio partorito del Tory dissidente Oliver Letwin. L’obiettivo è arrivare stavolta davvero al voto, lunedì stesso o martedì. I numeri ci dovrebbero essere, s’è sbilanciato in tv il ministro degli Esteri, Dominic Raab, in uno dei talk show domenicali. E si può «scommettere» che il Regno uscirà comunque dall’Ue il 31 ottobre, gli ha fatto eco Michael Gove, secondo vice de facto di Johnson. I conteggi di ieri del resto non ne smentiscono del tutto l’ottimismo. Tanto più che lo stesso Letwin ha confermato d’essere ora pronto a riallinearsi. Qualche incognita tuttavia resta, in un Paese in cui anche per strada la stanchezza sulla Brexit s’incrocia con sentimenti sempre più incattiviti su entrambe le trincee, come testimoniato dai rabbiosi insulti che frange di dimostranti del grande corteo filo Remain di ieri a Londra non hanno risparmiato a ministri conservatori costretti a ricorrere alla scorta della polizia: nel caso di Jacob Rees-Mogg assieme al figlio 12enne. Una prima incognita cruciale è l’emendamento preannunciato dal Labour per cercare di condizionare il deal al via libera a un referendum bis confermativo. Una seconda ha che fare viceversa proprio con lo stratagemma della tripla lettera sulla proroga. Trovata che i ministri ombra laburisti Keir Starmer e John McDonnell hanno definito «infantile», non senza minacciare di trascinare BoJo in tribunale per «oltraggio alla corte»: visto che il governo s’era impegnato di fronte a un giudice scozzese a rispettare il Benn Act «senza minarne gli scopi».(