Di Carlo Rebecchi
C’è voluto il grande incendio americano, come l’hanno già battezzato quotati commentatori per ricordarci che, coronavirus permettendo, il mondo sta tornando alla “normalità”. Una normalità dove tutto sembra sempre come prima. A dettar legge nel mondo sono sempre gli Stati Uniti, che un giorno si e l’altro pure si scagliano contro la Cina e escono sbattendo la porta dall’Oms, l’organizzazione mondiale della sanità. E minacciano sfracelli contro la finanza di Hong Kong – che governa l’economia non solo dell’Asia ma di gran parte del mondo – se l’ex colonia britannica dovesse perdere il suo statuto di semi-autonomia per diventare al cento per cento cinese, come vuole la legge fatta approvare a Pechino dal presidente Xi. E’ l’ “America first”, bellezza. E sono un “déjà vu” anche gli episodi di violenza razziale scoppiati a Minneapolis, da dove si sono poi allargati a decine di altre città, con poliziotti bianchi contro contro neri. I morti si contano per il momento sulle dita di una mano. Ma al momento nessuno, nè la la Guardia Nazionale né l’Esercito – al quale Trump potrebbe, volendolo, fare ricorso – sembrano in grado di fermare in quattro e quattr’otto l’incendio razziale.
Visto dall’Europa, lo spettacolo è apocalittico. Gli italiani, ancora sotto shock per i colpi – i morti e il disastro economico che ci aspetta – della pandemia possono soltanto interrogarsi, non certo fornire delle risposte. Si chiedono perché The Donald, che nella Penisola raccoglie anche simpatie, invece di gettarsi a corpo morto nella lotta contro il Covid-19 dedichi la maggior parte delle sue dichiarazioni e dei suoi ormai leggendari “tweet” ad alimentare lo scontro razziale. Come se la pandemia, con i suoi centomila morti – più di quanti ne abbiano provocato agli americani le guerre mondiali e quella del Vietnam – non fosse oggi il vero pericolo “numero uno”, un pericolo sottovalutato più di ogni altro – le sue dichiarazioni sono terribile atto d’accusa – proprio dall’inquilino della Casa Bianca. Un pericolo cui si aggiunge il drammatico numero di coloro – addirittura mi milione di persone – che negli States a causa del Covid-19 sono rimasti senza lavoro.
Riferendosi ai manifestanti che hanno tentato di forzare l’ingresso della White House, Trump li ha irrisi. “Se fossero riusciti a superare la cancellata, i dimostranti sarebbero stati accolti dai cani più feroci e dalle armi più minacciose” ha detto; e se è vero che chi infrange la legge rischia a proprie spese, conviene ricordare che quelle del Presidente non erano parole di poco conto. Per la comunità nera, liberare “i cani” rievoca tempi e fantasmi terribili, come quello di Bull Connor che nei primi Anni 60 scioglieva veramente i cani, in Alabama, contro le marce pacifiche di Martin Luther King. La situazione dei neri, in America, non è più quella di allora, anche se ricordo di aver incontrato negli anni novanta, nel corso di un viaggio nello stato del Mississipi, esponenti del Ku Klux Khan. A me, italiano ed europeo, la cosa faceva un misto di paura e di folklore. Ma non lo era per gli americani, bastava un nonnulla per far esplodere la violenza tra bianchi e neri.
Donald Trump, che a momenti dà l’impressione di essere uno dei nostri “sovranisti” (spesso da salotto), conosce la storia americana e la lunga scia di sangue e di rancore razziale che l’ha sempre attraversata dalla guerra tra nordisti e sudisti ad oggi. A cinque mesi dalle elezioni per la sua riconferma alla Casa Bianca, il risultato è incertissimo. Il suo avversario democratico, quel grigio Joe Biden che non è certo un trascinatore di folle, avrebbe secondo i sondaggi un vantaggio di almeno dieci punti. Ed allora, è la lezione che si può trarre dall’immagine di Trump che getta benzina sul grande incendio razziale, il presidente alla ricerca del bis usa fino in fondo, senza scrupoli, la strategia mediatica che lo fece vincere quattro anni fa. Se non puoi convincerli, confondili, fa in modo che sentano soltanto te.
Sulle sue spalle, Trump ha i centomila morti della pandemia (è stato lui, per due mesi, a sostenere che era una barzelletta). La pandemia ha spazzato via in poche settimane i successi economici statunitensi dei suoi primi tre anni da presidente (quando Wall Street correva, facendo aumentare la ricchezza di chi era già ricco ma non migliorando la situazione dei lavoratori e soprattutto delle classi più povere). Perché la gente non ascolti chi parla di una “crisi di consenso” del Presidente, ogni argomento che conquisti le prime pagine dei giornali e dei telegiornali è buono. Dalla visita alla base spaziale agli attacchi all’OMS guidata “con finalità anti-americane” dalle Cina che, sottolinea, sta dimostrando su Hong Kong come sia ancora lontano dall’essere un paese democratico. E anche il “pugno duro” contro le rivolte della comunità nera fanno probabilmente parte dell’armamentario elettorale grazie al quale Trump spera di essere rieletto.
L’Europa guarda e non capisce e, se capisce, fa finta di non capire. Un’Europa politica non c’è, ciascuno dei governi del Vecchio Continente dà un colpo al cerchio e uno alla botte. I leader europei non vogliono però che i loro concittadini li considerino uguali a The Donald. Per questo, l’unico vero statista che l’Europa ha in questo momento, la tedesca Angela Merkel, ha fatto sapere che non si recherà al G7 negli Stati Uniti (anche se con la scusa del coronavirus). Il presidente francese Philippe Macron, alla ricerca spasmodica di un ruolo per la Francia di domani, non ha ancora deciso. Ma come potrebbe non essere presente il premier italiano Conte? Gli Usa sono sempre gli Usa; e questo “Giuseppi” lo sa.