Francesco Tagliente, già prefetto di Roma, dichiara: “L’omicida della psichiatra di Pisa Barbara Capovani poteva essere fermato? Gli autori di tanti altri omicidi psichiatrici potevano essere fermati? Quelle vittime innocenti potevano essere salvate?
La domanda che mi faccio spesso di fronte a gravi episodi criminali commessi da adulti e meno adulti, è se è stato fatto tutto quello che si poteva fare, sul piano della prevenzione, per frenare i comportamenti a rischio.
Senza girarci intorno con le parole, dobbiamo prendere atto che nella gestione delle persone con patologie psichiatriche che commettono fatti gravi, permangono serie criticità. Non ho difficoltà a definire fallimentare la rete sociale. Lo conferma il fatto che molti periti vengono chiamati a riperiziare più volte le stesse persone generatori di reati. E lo conferma il fatto che norme o direttive vigenti non sono state in grado di impedire la furia criminale di persone lasciate libere di sfogare quella violenza omicida, già emersa con chiara evidenza in passato.
L’omicidio della psichiatra di Pisa Barbara Capovani non è un caso isolato. Nella mente di tantissimi cittadini è ancora viva la tragedia del triplice femminicidio del 17 novembre a Roma commesso da Giandavide De Pau. Un uomo lasciato libero di uccidere nonostante la gravità dei reati commessi, compreso lo stupro di una prostituta brasiliana, con una violenza tremendamente simile e la diagnosi sulla sua pericolosità sociale psichiatrica, con il concreto pericolo di reiterazione di reati della medesima specie. Già da decenni aveva mostrato la sua indole violenta. Legami con in mondo della mafia e dei narcos, precedenti per droga, armi, violenze, molestie sessuali, seguite da ripetuti ricoveri in strutture psichiatriche.
Molti ricordano il duplice omicidio dei poliziotti di Trieste il 4 ottobre del 2019, da parte di un dominicano psicotico grave con deliri di persecuzione, poi assolto per vizio totale di mente. Anche per il caso Meran è stato un clamoroso fallimento perché per lui i familiari avevano chiesto aiuto alle istituzioni sanitarie tedesche e italiane. Peraltro, i Tribunali sono pieni di procedimenti a carico di autori di reato con malattia psichiatrica.
Per capire quale è l’anello debole del sistema di difesa sociale mi piace immaginare un momento di riflessione condivisa su cosa non sta funzionando. Cosa avremmo dovuto fare, e cosa si può ancora fare per tutelare la vita delle persone?
Mi piace immaginare il coinvolgimento, per questa riflessione, di tutti coloro che nel corso degli ultimi anni si sono occupati a vario titolo, direttamente o indirettamente, degli autori di reati gravi con malattia psichiatrica per le quali è stata diagnosticata una pericolosità sociale con il concreto pericolo di reiterazione di reati della medesima specie.
Penso a Parlamentari, Magistrati, Forze di Polizia, Psichiatri, Rappresentanti degli Istituti di custodia cautelare, degli ex Manicomi giudiziari, degli ex Ospedali psichiatrici giudiziari, delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, dei Dipartimenti di salute mentale e dei Centri di Salute Mentale. Tutti insieme a riflettere, con una cultura della sicurezza condivisa finalizzata, dare una risposta su cosa fare per migliorare la rete della difesa sociale.
Nella tragicità della vicenda una certezza. L’architettura normativa vigente non consente al Questore, Autorità di pubblica sicurezza, ed alle forze di polizia di surrogare o supplire alle falle del sistema sanitario e ancor di più alle “Residenze per l’esecuzione di misure di sicurezza” (REMS) per gli autori di reati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi. Ricordo che dopo il 2008, fu avviato un radicale cambiamento della gestione delle misure di sicurezza per i casi psichiatrici con il trasferimento delle competenze di medicina penitenziaria dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello della Sanità.
Sul tema ho ritenuto sentire la valutazione del neuroscienziato e psichiatra Pietro Pietrini, professore di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica della Scuola IMT Alti Studi Lucca, che è stato chiamato a periziare gli autori dei delitti più efferati degli ultimi anni
Ecco cosa mi ha detto a proposito dell’anello debole del sistema di difesa sociale.
“Premesso che la malattia mentale non è sempre associata a manifestazioni di violenza auto od etero-dirette e che certamente non tutta la violenza è riconducibile alla malattia mentale, è indiscusso che vi sono patologie che, per le loro caratteristiche psicopatologiche, possono grandemente favorire, se non addirittura causare, comportamenti antisociali. Accanto ai casi più tragici, che assurgono agli onori della cronaca, vi sono una miriade di casi “minori”, commessi da persone affette da condizioni psichiatriche che compromettono la loro capacità di pienamente autodeterminarsi. Sono frequenti i procedimenti per risse, minacce o resistenza a Pubblico Ufficiale, piccoli furti e così via che hanno come protagonisti soggetti già riconosciuti non imputabili per vizio di mente in processi precedenti subiti per medesime condotte. In questi casi, dunque, la pericolosità sociale di natura psichiatrica – vale a dire la probabilità che l’individuo commetta nuovamente reati simili in ragione della patologia che lo affligge – è documentata in atti. Gravi disturbi della personalità, primo fra tutti il Disturbo Borderline di Personalità come pure il Disturbo Antisociale di Personalità – da soli o sovente associati ad altri Disturbi mentali (cosiddetta comorbidità), quali i disturbi della regolazione dell’umore o i disturbi da abuso di alcol o di sostanze – sono molto spesso associati alla commissione di reati. Questi pazienti hanno una composita fenomenica psicopatologica, che comprende, tra gli altri aspetti, elevati livelli di impulsività, marcato discontrollo del comportamento, labilità emotiva, esagerato timore dell’abbandono reale o immaginario, incapacità nelle relazioni interpersonali. Sono persone che spesso abusano di alcol o di altre sostanze, assunte per mitigare quel senso di vuoto profondo che li affligge. Sono persone nelle quali la capacità di controllare il proprio comportamento, di rispettare le regole della società e della legge è gravemente e pervasivamente compromessa dalla patologia. Potremmo dire che per questi pazienti commettere un’infrazione è come il tossire per un paziente con bronchite cronica. Ne consegue che per questi casi, se la pena deve essere, come prevede la Costituzione, punitiva e al contempo riabilitativa, la risposta della società non può essere la mera detenzione in carcere. È necessario rafforzare la rete territoriale di strutture preposte al trattamento combinato – psicoterapeutico e psicofarmacologico – e predisporre percorsi terapeutici e riabilitativi che possano incidere in maniera efficace sulla sottostante situazione clinica.”